La sedia sfida il declino
e punta ai nuovi mercati
Il
Manzanese. Dal boom e dalla ricchezza degli anni 70 alla delocalizzazione e
al tramonto. Il presidente dell’Asdi: chi aveva puntato sulla qualità è
riuscito a resistere
Manzano,
11 settembre 2012
Implacabile
come un castigo draconiano, la crisi si è abbattuta sul Distretto della
sedia più che altrove. Lo ha sfregiato, lasciando profonde cicatrici. Ha
eroso ricchezza e imprenditorialità. Ha disintegrato illusioni. Ha posto la
parola fine all’economia “fai da te”. Ma non ha ucciso una realtà che sta
dando importanti segnali di ripresa. Di certo, ha scremato le aziende,
lasciando indenni quelle che hanno sempre scommesso sul nuovo e che hanno
capito quello che stava accadendo.
I
segnali non visti. Sì,
c’erano, nel Manzanese, anche un’eccessiva spensieratezza, una certa
ostilità al cambiamento e una sorta di cecità di fronte all’incipiente
tsunami economico mondiale che avrebbe tramortito in pochi anni l’America
friulana con una serie ininterrotta di colpi mortiferi. Detto con le parole
del presidente dell’Asdi, Giusto Maurig: «L’errore di tanti, di troppi è
stato probabilmente quello di non avere compreso per tempo le accelerazioni
del mercato e le sue imprevedibili evoluzioni».Di essersi cullati su una
ricchezza che pareva immortale e invincibile.
Il
distretto scopre la crisi.
Il Distretto ha improvvisamente scoperto la parola crisi: la concorrenza
del Nord Europa, il tonfo dell’export, l’irruzione dei Paesi dell’Est
sempre più competitivi e sempre meno disposti a vedersi acquistare boschi e
a delegare la lavorazione del legno. L’irruzione della Cina. Il Manzanese
comincia a tremare. E le aziende che hanno puntato soltanto sulla quantità
e la produttività prima patiscono, arrancano, boccheggiano, poi,
inevitabilmente gettano la spugna. Fine di un sogno. Il mondo è cambiato e
la sedia, perlomeno quella “normale”, non è e non sarà più un retaggio
principalmente friulano.
Il
dramma delle insolvenze.
La crisi spazza aziende, sgretola imprese, distrugge imprenditori. Oggi,
nel territorio dell’Asdi i capannoni chiusi sono decine e decine. Gli
occupati dai 15 mila del boom degli anni Settanta sono circa 6 mila; delle
1.100 aziende quelle davvero operative sono circa 700 perché molte, che
pure figurano iscritte alla Cciaa, o stanno chiudendo i battenti oppure si
trovano in liquidazione; la banche non sono più le “amiche” degli
imprenditori, ma lo spauracchio per quelli che hanno bisogno di crediti, di
anticipi o di mutui. Il problema delle insolvenze è un macigno. «Sì, è
proprio così – dichiara un bancario che chiede l’anonimato –, ma purtroppo
le regole sono queste e noi siamo costretti a farle rispettare proprio a
chi per anni ci ha fatti ricchi».
La
corsa a ostacoli. «Chi
ha voluto rimanere sul mercato – sono ancora le parole del presidente
dell’Asdi, Maurig – ha impegnato tutto quello che possedeva. Conosco decine
e decine di imprenditori che hanno ottenuto crediti impegnando tutti i beni
personali. E questo significa che ci credono, che hanno fame di futuro, che
sono convinti che il peggio sia ormai alle spalle. Ma il vero problema non
è la competitività delle nostre aziende, ma il sistema Italia nel suo
complesso. Non possiamo, soprattutto in tempi di grave crisi come
l’attuale, mortificare l’imprenditoria, ponendo ostacoli su ostacoli che
vanno dai costi dell’energia, alle pastoie burocratiche alle difficoltà di
accesso al credito ai costi dei carburanti».
Puntare
sui prodotti di nicchia.
Parole sacrosante, verrebbe da dire. Ma è anche vero che la crisi ha fatto
più male a chi non l’ha saputa prevenire o affrontarla nei termini giusti.
Chi non si è innovato. Dice ancora il presidente dell’Asdi: «Il mondo è
cambiato; noi siamo cambiati. Oggi qui non parliamo più di sedia, ma di legno
e della sua filiera che va dal tronco, all’essiccazione, alla segheria e
giù, giù fino al prodotto finito. Non dobbiamo fermarci alla sedia, ma
puntare a prodotti di nicchia. E questo significa imboccare la strada della
qualità, l’unica via che ci mette al riparo da ulteriori rischi di
recessione». E qualità è diventata per l’Asdi la parola d’ordine, il verbo,
l’imperativo categorico per uscire da un tunnel che ancora non fa
intravedere la piena luce («la moria di altre aziende – dichiara un po’
sconsolato Maurig – è inevitabile perché la crisi ha creato una scrematura
e soltanto i migliori sono rimasti sul mercato»).
L’Asdi
e la qualità. L’Asdi,
nella cui mission ci sono – tra gli altri obiettivi – l’aumento della
capacità di innovazione e di aggregazione delle imprese, l’aggregazione
delle medesime e la promozione della cultura del Distretto – nell’ottica di
uno sviluppo complessivo del Distretto attraverso la valorizzazione delle
realtà produttive della filiera, ha voluto il progetto “Filiera Iso 9001”. L’obiettivo
dell’iniziativa è di accompagnare le imprese del Distretto appartenenti
alla filiera della sedia attraverso un percorso formativo e migliorativo
che porta alla certificazione Iso 9001 dell’Asdi Sedia e delle aziende che
aderiscono al progetto. Eccola la più importante sfida per “stare” sui
nuovi mercati. La ricetta in più per non farsi spaventare da
delocalizzazione, innovazione, competitività. E proprio la delocalizzazione
per il Distretto è un dèjà vu.
La
delocalizzazione. Nel
1878 da Mariano del Friuli, al tempo ancora austriaco, erano giunti nel
Manzanese i fratelli Zaneto e Toni Fornasarig, che, per continuare a
vendere e aggirare il dazio di confine, avevano aperto la prima fabbrica di
sedie ad Oleis, spalancando il magico portone su una realtà che negli anni
’70-’80 aveva fatto dell’iniziale Triangolo della sedia (San Giovanni al
Natisone, Manzano e Corno di Rosazzo) una delle zone più ricche e laboriose
d’Italia se non dell’Europa.
Gli anni del boom. Altri tempi quando il Manzanese – che diventa
prima Distretto industriale della sedia e poi Agenzia per lo sviluppo del
Distretto industriale (Asdi) – pareva il paese di Bengodi dove sfrecciavano
Ferrari e Porsche e l’alacrità delle persone gonfiava i depositi bancari.
Eccoli, gli anni del boom della sedia e della sua filiera: dal bosco, al
tronco, alla fabbrica, al prodotto finito. Anni d’oro con oltre 15 mila
occupati in un’area, quell’Asdi, che annovera 11 Comuni su 223 chilometri
quadrati e circa 37 mila residenti. La sedia era vita: c’erano lavoro,
occupazione, sacrifici, quotidianità. Soldi. C’erano circa 1.100 aziende. E
il benessere era capillare.
di Domenico Pecile
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