mercoledì 10 dicembre 2014

Ecco quel che resta della Grande sedia

Rassegna Stampa - Dicembre 2014

cav. Rosario Genova

Consigliere Comunale
Ecco quel che resta della Grande sedia
 In quindici anni le aziende sono passate da 1.110 a 600. Dimezzati gli addetti Si è salvato chi aveva partner commerciali esteri. Il sindacato: fare sistema
Manzano, 10 Dicembre 2014
 Capannoni chiusi, abbandonati. Inghiottiti dalla ruggine. Una ventina di anni fa pullulavano di operai, tecnici e artigiani del legno. Si fabbricavano sedie, un marchio di cui il Friuli andava fiero. In Italia e nel resto del mondo. Oggi quel territorio compreso fra San Giovanni al Natisone, Manzano e Corno di Rosazzo non riesce a rimarginare le ferite provocate dalla crisi. Il triangolo della sedia, così come era conosciuto, non ha più un vertice, nè lati robusti su cui far correre l’economia di una regione. E poco importa se è noto a livello internazionale come il distretto della sedia, con l’aggiunta di altri comuni quali Buttrio, Aiello, Pavia di Udine, Chiopris Viscone, San Vito al Torre, Moimacco e Trivignano Udinese. L’età dell’oro è finita per molti di quegli imprenditori che sulla sedia avevano creato una fortuna. Le cifre sono impietose. Dalla fine degli anni Novanta a oggi delle iniziali 1.110 aziende ne sono rimaste 600. Allora vi erano impiegati 11 mila addetti che al giorno d’oggi sono diventati 5 mila. Una perdita secca del 50 per cento nell’arco di tre lustri. Una botta tremenda per il settore. Un ko dal quale è difficile riprendersi. «Tutto è cominciato negli anni Novanta - spiega Emiliano Giareghi, della Cgil provinciale - quando si cominciarono ad avvertire i primi segnali che anticipavano la tempesta. Fino a quel momento gran parte del successo delle imprese del distretto era legato alla svalutazione della lira. Facendo leva su una marcata vocazione all’export, le aziende potevano sfruttare la leva monetaria per imporre i propri prodotti all’estero. Con l’avvento dell’euro - aggiunge Giareghi - le cose si sono fatte più difficili». Ma a trascinare il settore nel “buco nero” della crisi è stato il tracollo dei mercati finanziari nel 2008. Da allora la caduta è stata inesorabile. E i segni sono visibili, oggi, a occhio nudo. I capannoni chiusi assomigliano a rovine abbandonate. Una consistente fetta di quel triangolo un tempo ricco e fiorente si è trasformata in un enorme reperto “archeologico”. «È uno spettacolo desolante. Il territorio, e mi riferisco agli anni Sessanta e Settanta, si era sviluppato - sottolinea l’esponente sindacale - seguendo uno schema pressochè identico. Chi voleva investire nella sedia, costruiva l’azienda a pochi passi da casa. E questo ha fatto la fortuna anche di chi gravitava attorno: bar, ristoranti, tabacchini». Ma qualcuno è riuscito a schivare lo spettro della chiusura. Chi ha puntato sull’innovazione, ma soprattutto chi aveva i partner commerciali fuori dai confini nazionali. Quelli che vendevano quasi esclusivamente in Italia hanno sofferto tantissimo. E molti si sono arresi. Oggi pensare di rinverdire i fasti del passato è impossibile. «Le piccole imprese, quelle con dieci dipendenti tanto per farci capire, hanno difficoltà a imporsi e a vendere. Chi si è consorziato - precisa Giareghi - si è salvato, chi ha continuato a correre da solo è piombato nel dramma. Ecco, credo che l’unica ricetta per una ditta del settore sia quella di fare sistema. Ma non basta: il distretto della sedia è la cartina di tornasole della situazione in cui versa l’economia italiana. E allora ci vorrebbero meno burocrazia per avviare un’attività imprenditoriale, politiche che rendano attrattivo il territorio, la riduzione del costo del lavoro, l’abbattimento dei costi legati all’energia. Se piccole realtà produttive - secondo il rappresentante della Cgil - riuscissero a collaborare fra loro evitando di farsi la guerra, qualcosa potrebbe migliorare. Ma troppo spesso vige la regola del “mors tua, vita mea”». Tra immaginare soluzioni e metterle in pratica, però, troppo spesso i tempi sono biblici. E così si può anche assistere all’arrivo di imprenditori stranieri che acquistano i capannoni che i friulani sono stati costretti a chiudere. Dapprima francesi e tedeschi, poi spagnoli e oggi cinesi. «Ma il più delle volte - puntualizza Giareghi - si tratta di compratori interessati ad acquisire il portafogli clienti o ad avviare la produzione per l’azienda madre di cui sono propietari in patria». Ma allora, tirando le somme, costruire sedie non conviene più? Il distretto è condannato a una lenta agonia? «Come dicevo prima - afferma il sindacalista - c’è chi è riuscito a evitare gli effetti nefasti della crisi. Le sedie serviranno sempre. Ma stiamo vivendo una fase in cui si registra un drammatico crollo del potere d’acquisto. Una bella sedia, che magari costa 80 euro, viene lasciata lì e le viene preferita una più “ordinaria”, ma per la quale si possono sborsare 20 euro. E magari si scopre che non è stata costruita in Italia. Per cambiare le cose servirebbe una scossa, ma qui parliamo di scelte politiche a livello nazionale. Che, per il momento, non si vedono». Insomma, quello che il Friuli ha perso non ritornerà. Punto e a capo. l’analisi Il presidente dell’Asdi: mercato cambiato, ma il distretto è più vivo che mai «Il distretto della sedia è più vivo che mai. È cambiato il modo di produrre e di vendere che si è adeguato alle richieste del mercato che non sono più quelle di venti anni fa». Questo il punto fermo del direttore dell'Asdi, Carlo Piemonte, che del distretto della sedia vede le grandi potenzialità espresse e ancora da esprimere. Una volta il triangolo era il “luogo” dove dall'estero e dall'Italia i compratori arrivavano per acquistare. «Ora la strategia è cambiata, non c'è più chi viene a comprare, ma sono le aziende che vanno nei grandi mercati a vendere. Le nostre realtà più che “in casa” sono conosciute nel mondo per il design e la qualità che da nessun’altra parte è così di alto livello. Una prospettiva che mette in luce quanto le aziende, piccole o grandi che siano, puntando su tecnologia e professionalità possono raggiungere grandi numeri e fatturati. «Quando vedi che, come per esempio nella settimana del design a Londra, in settembre, architetti da tutto il mondo fanno la fila negli stand delle nostre aziende per vedere e ammirare cosa viene proposto, è evidente che il distretto è tutto tranne che morto». In tutto questo, ruolo fondamentale lo hanno anche le nuove generazioni su cui si deve puntare a partire dalla scuola. «Troppo spesso il giudizio negativo sul territorio della sedia fa si - si affretta a sottolineare Piemonte - che i giovani si avvicinino con maggior difficoltà a una realtà, invece, sempre in cerca di tecnici specializzati o di commerciali». In un territorio in cui la prima voce è il manifatturiero, paradossalmente ci sono più tecnici informatici e creatori di applicazioni per il web che specializzati nel settore della produzione del legno. Ma i numeri raccontano altro. Con alcune aziende che, puntando in special modo sulla professionalità, sulla conoscenza e sulla scoperta di altri mercati non solo non hanno chiuso ma, in qualche caso, addirittura aumentato il fatturato dal 20 al 30% e con esso aumentato anche i posti di lavoro. (s.r.)

L’export vale oltre mezzo miliardo di euro
Ci sono imprese che vendono in Arabia, Russia e Usa. Cambiata la produzione: si punta sull’arredo

MANZANO Il volto del distretto della sedia è profondamente cambiato negli ultimi dieci anni. I dati parlano di un 30-35% di aziende che hanno chiuso. Ma dietro le cifre, a volte sterili (e che se analizzati più a fondo fanno emergere che a chiudere sono state le piccole realtà e le aziende di subfornitura), si nasconde un distretto che vale oltre mezzo miliardo di euro di export, cioè circa il 75% della produzione totale. Percentuale che, in qualche caso, per alcune aziende arriva anche a quasi il 100%. Ma a sopravvivere alla crisi che, inutile nasconderlo, ha picchiato duro, non sono state soltanto le grandi realtà, più forti economicamente e che, quindi, meglio hanno risposto al crollo mondiale dei mercati. Tante anche le piccole che hanno saputo puntare sull’innovazione del prodotto e sulla qualità. Ormai, infatti, non è più il tempo delle grandi produzioni in catena di montaggio che sfornavano milioni di “marocche” tutti uguali. Quelle, ormai, sono state delocalizzate all’estero, nei Paesi asiatici e nell’Est Europa. Qui è rimasto il design, che non più sulla quantità, ha puntato sui mercati di “nicchia” dove la parola d’ordine è qualità di alto livello. Che è fatta di idee, ma anche di certificazioni green, di innovazione e tecnologia e di quel pizzico di italianità e buon gusto che all’estero possono solo tentare di copiare, ma difficilmente eguagliare. Sono cambiati il target e il livello del cliente finale e, di conseguenza, anche il modo di fare impresa e chi nel distretto ha capito in tempo che i clienti non arrivano più in azienda, ma bisognava andarseli a cercare nei mercati di tutto il mondo - dall'Arabia Saudida alla Russia e agli Stati Uniti - ora è più forte di quanto non fosse negli anni d’oro. E con l’internalizzazione per le imprese è arrivato anche il cambio di immagine. Già, perché se prima i produttori non comparivano ora hanno creato una propria identità: il loro “brand” (il marchio) è conosciuto nel mondo e in molti casi è sinonimo indiscusso di qualità. Accanto a questo c’è stata anche un’evoluzione nella produzione con il passaggio dalla storica produzione di sedie e di complementi (come, per esempio, appendiabiti e porta oggetti) ad un recente approccio al mondo dell’imbottito sempre nell’ambito delle sedute, quindi con poltrone e poltroncine. Sino ad esempi di aziende che hanno ampliato la visione ed ora puntano sull’arredo a 360 gradi. In tutto questo le piccole realtà, che sui mercati mondiali forse avrebbero da sole qualche difficoltà a farsi largo tra i colossi, si sono ritagliati lo spazio nella catena di montaggio come fornitori di parti di quello che diventerà il prodotto finale di alto livello.

Ma molti operai sono rimasti senza lavoro e senza una specializzazione: non hanno potuto ricollocarsi
In questo panorama c’è inevitabilmente una parte debole che paga con la disoccupazione la bassa professionalità. Sono tutti quegli operai che, nel momento della crisi, rimasti senza lavoro e senza una specializzazione precisa - che fino a quel momento non era indispensabile - non hanno potuto ricollocarsi e che ora si ritrovano in un vicolo cieco tra il non avere le competenze e le conoscenze che il mercato del lavoro richiede e non avere più l’età per rimettersi a studiare. Un problema che si abbatte non solo in questa parte della regione, dove comunque si registra una diminuzione della cassa integrazione, ma che sfiora punte del 10% di disoccupazione a fronte di una media nazionale del 12,6% e che nel Nordest scende all’8,4%. Davanti a tutto questo, però, c’è anche un dato in controtendenza che apre qualche spiraglio. Nelle aziende del distretto che in questi anni hanno puntato sull’innovazione e sulla tecnologia, i primi risultati incoraggianti e positivi stanno tutti nel più 2,2% di fatturato e in un aumento di otto unità nell’occupazione. Silvia Riosa 


Eppure il made in Manzano all’estero è ancora il top
Il caso della Potocco spa: quasi cento anni di storia e il 90 per cento di export «Prodotto unico, servizi al cliente, innovazione: così la crisi si può superare»


MANZANO Decine di capannoni chiusi, aziende costrette ad alzare bandiera bianca. La Grande Sedia sembra il puff di Fracchia, vacilla, non dà solidità? È vero. La situazione è difficile, i posti di lavoro persi sono scritti ormai nelle statistiche. Ma meglio delle statistiche fa quel panorama desolante attraversando il Distretto. Qui non si scoperchiano ancora i capannoni chiusi per non pagare l’Imu come fanno in diverse parti d’Italia (Veneto compreso), almeno non lo si fa ancora. Ma la geografia del Distretto della sedia nel quadrilatero Manzano, San Giovanni, Corno di Rosazzo e Premariacco è cambiata. Eppure la Grande Sedia, non è morta. Lo dimostrano alcune aziende che ce l’hanno fatta a sopravvivere e ricollocarsi. Ce lo dice il mercato. Il più ambito, quello americano. Negli Usa il made in Italy e soprattutto il Made in Manzano, se si parla di sedie e di legno, è ancora il punto di riferimento. E da oltre oceano (e da Oriente) arriva un’altra bella notizia. La situazione economica sta cambiando. In meglio. Il nostro osservatorio privilegiato è la Potocco spa di Manzano, 90 dipendenti, una di quelle aziende storiche del Distretto che sono sopravvissute allo tsunami. Come? Ce lo racconta l’amministratore unico Antonino Potocco e la manager Silvia Di Palma, che da anni segue il mercato americano. Lei quei clienti di grandi negozi da una costa all’altra li conosce alla perfezione. Sa cosa pensano di noi. E per loro quella Grande Sedia, se fatta con stile, innovazione, passione, amore non è affatto un puff di Fracchia.
Il segreto per sopravvivere nel Distretto è sempre la qualità? «Sì ma non basta. Oggi è fondamentale anticipare le richieste del mercato, proporre un prodotto unico e con caratteristiche speciali. Serve il servizio al cliente».
Come viene vista la Grande Sedia all’estero? «Il made in Italy, quello vero che noi rappresentiamo è ancora un valore molto importante, soprattutto nel settore del lusso. Come ci è stato confermato anche la settimana scorsa a New York, nel mercato americano vi è una netta preferenza per i prodotti di provenienza italiana piuttosto che per quelli prodotti in altre aree del pianeta. Il tocco artigiano e l’esperienza, così come la storia delle aziende familiari così diffuse nel settore dell’arredamento in Italia e soprattutto nel nostro distretto, sono sicuramente degli elementi molto apprezzati. Chi si rivolge alla clientela d’élite, offrendo un prodotto esclusivo per unicità e qualità di esecuzione, vede ancora nel vero made in Italy un elemento chiave, in grado di marcare una netta differenza con gli altri presenti sul mercato».
Un esempio? «Recentemente abbiamo avuto in visita da noi un gruppo consistente di negozianti statunitensi che sono rimasti estremamente entusiasti nel vedere come si lavora qui. In particolar modo, li ha colpiti la costante presenza dell’uomo, in ogni fase del processo produttivo. Quindi un prodotto industriale, ma costruito con le mani e controllato dagli occhi di veri artigiani. E hanno amato profondamente la bellezza della nostra terra e delle nostre città (Udine e Cividale), la bontà del cibo e del vino, l’ospitalità dei friulani».
Insomma il Distretto piace ancora... «Credo che la differenza la faccia l’altissima specializzazione, unita alla storia (che si traduce in esperienza) e al preziosissimo know how della manodopera di cui fortunatamente possiamo avvalerci».
Ma cosa significa proporre un prodotto made in Friuli durante la crisi? «Il made in Italy all’estero aiuta ancora ad aprire le porte. In un mercato invaso da migliaia di prodotti di qualsiasi tipo, qualità e provenienza, la sedia Made in Friuli gode ancora di un valore intrinseco percepito molto alto. E noi, alla Potocco, ci impegnamo quotidianamente affinché questa percezione rimanga inalterata e, anzi, aumenti ulteriormente. Sappiamo infatti che ciò che siamo in grado di offrire noi è di difficile raggiungimento nelle altre realtà industriali mondiali».
Che cosa cerca il mercato americano in una sedia? «Il mercato Usa, dopo anni di consumo di un prodotto di massa, cerca unicità, originalità e il massimo della personalizzazione. Caratteristiche che per noi sono irrinunciabili».
Si intravedono dai vostri viaggi in America segni di ripresa economica? «Sì, specialmente negli Usa. Ma buone notizie arrivano anche dall’Oriente, in cui ci sono i mercati storici e anche quelli emergenti che possono dare belle soddisfazioni. Là vive la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Purtroppo è la “nostra” Europa che soffre e sulla quale è difficile pianificare le nostre politiche per il medio-lungo termine».
Quanto rappresenta l’export nel vostro fatturato? «La Potocco, prossima a festeggiare i 100 anni della sua storia, oggi ha 90 dipendenti. L’export rappresenta da sempre una parte considerevole del fatturato aziendale, circa il 90%. Al momento i mercati principali sono Usa, Russia ed ex-blocco Sovietico, alcuni Paesi dell’Asia e del Medio Oriente».
Qual è il vostro prodotto di punta? «Ci siamo allontanati dalla concezione di “azienda di sedie” pura e semplice. Oggi offriamo una visione completa dell’area living, con collezioni complete di tavoli, mobili e complementi. Oltre a ciò, punta di diamante della nostra realtà, la possibilità di realizzare il custom made, quindi il prodotto personalizzato completamente sulla base delle esigenze e dei gusti del clienti. Non è facile quindi individuare un prodotto di punta, un best seller, quanto piuttosto un’area di gusto che la fa da padrona: il lusso».
Che consigli vi sentite di dare alle altre aziende del Distretto? «Quello che sicuramente contraddistingue le aziende della nostra zona sono l’altissima specializzazione e la storia. Il nostro consiglio è sicuramente quello di rimanere fedeli alla tradizione e di non lasciarsi tentare da soluzioni apparentemente vantaggiose, ma che allontanino la produzione dal distretto. E cercare di rimanere sempre all’avanguardia nel design, nelle tecnologie e nella qualità del servizio». Chi l’ha fatto sopravvive e tiene ancora alta la bandiera della Grande Sedia. Che sventola ancora nel mondo, nonostante lo tsunami.

Nessun commento:

Posta un commento